Il corpo della natura
Marco Montori
Note sul lavoro di Martina Buracchi
Physis
kryptesthai philei
(Eraclito, fr. 123 D.K.)*
Beauty is
Truth, Truth beauty – that is all
Ye know on
earth, and all ye need to know.
(J. Keats, Ode on a Grecian Urn) **
Poiché l’arte in verità, è dentro la natura, chi è capace
di trarla fuori, la possiede.
(Albrecht Durer)
*La natura ama nascondersi.
**Bellezza e verità, verità e bellezza: questo è tutto/ quel che sulla terra vi è dato di sapere: e tutto ciò che vi basta sapere
La natura e il paesaggio soffrono per essere diventati oggetti fra gli oggetti. Nell’esperienza di massa spesso è solo un simulacro di paesaggio quello che si può incontrare: memorie artificiali o simulazioni pubblicitarie di paesaggi ideali.
Il consumo materiale ed economico della natura porta ad una consunzione progressiva della sua immagine, le cause sono varie e tutte importanti. Innanzitutto il venir meno, per lo svigorimento simbolico, della meraviglia, da qui la caduta nell’usuale e nell’ovvio, una progressiva incapacità di vedere imputabile all’enorme quantità di immagini che nella società contemporanea sostituiscono la natura, già da tempo iscritta nel registro di una materialità inerte e perciò manipolabile a piacere.
E’ per tutto questo che diventa difficile dire bello un paesaggio per lo più violato o incompreso, oppure definire sublimi montagne ingabbiate nel reticolo delle funivie, e i litorali formicolanti di masse umane, etc.
E’ in questo disagevole clima che Martina Buracchi ha intrapreso la sua carriera di pittrice, dapprima attraverso la rigorosa formazione presso L’Accademia di Belle Arti di Firenze, poi, successivamente nella faticosa pratica di ricerca e sperimentazione quotidiana, è sorprendente e raro vedere quanto l’artista abbia curato la propria preparazione, ne sono testimonianza le grosse cartelle di disegni anatomici, di ritratti e di oggetti, fra cui rustici scarponi e abbozzi di paesaggi. Nelle tavole anatomiche e un po’ ovunque, si coglie l’impeto di una ricerca introspettiva; nei nudi accademici, nei ritratti e nella magnifica serie degli autoritratti, l’artista è efficacemente tesa a fissare la determinazione emotiva dell’istante. La figura umana muliebre quanto maschile reca tratti decisi, secchi non esenti talora da violenza, tratti che circoscrivono drammaticamente il loro spazio corporeo, quale scena dei sentimenti più vitali.
Non è difficile per l’osservatore sperimentato, vedere che la ricerca della Buracchi sa cogliere efficacemente la complessità del motus animae nel corpo materiale che veicola tale moto.
Al prezzo di queste fatiche l’Artista toscana non solo è divenuta sicura padrona delle tecniche tradizionali, ma del pari capace di sperimentarne efficacemente di nuove, maturando quei livelli di poeticità che dal 2007-2008, le consentono di andare oltre la semplice riproduzione del visibile per giungere, come vediamo oggi, a manifestare la struttura nascosta della natura. (cfr. 1° esergo di Eraclito), come, a suo modo, procede la fisica quando illustra atomi e particelle. Come ha potuto giungere a tanto? La fatica fisica, l’effusione laboriosa non sarebbero state sufficienti senza la disponibilità e la sensibilità della Buracchi ad essere avvolta, anche involontariamente dall’archetipo corpo della natura, dal quale tutto il cosmo sensibile, con i suoi colori e le sue forme, prende vita. Tutto questo ho colto nei frequenti colloqui con l’artista: la volontaria consapevolezza di sottostare gioiosamente al profondo magistero naturale che non manca di nutrire la sua “immaginazione produttiva”. Mi corre a questo punto l’obbligo di far presente che il soggettivismo moderno equivoca la creatività intendendola come l’azione geniale di un soggetto sovrano, mentre il progetto artistico della Buracchi, non ottiene il suo valore ed il suo fascino né dall’abituale, né dal tramandato. Parafrasando F. Holderlin, La Natura più antica delle età (evi)/sopra gli dei della sera e dell’oriente, si desta nell’opera matura della Sinalunghese sotto forma di estasi ardente, in cui si nasconde l’apparente, il naturalistico dell’osservazione ingenua e, si manifesta nella luce il nascosto. (ancora Eraclito fr. 123)
La natura e il suo corpo che per G. Leopardi era sintetizzato da una donna bruna dallo sguardo terribile (cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese in Operette Morali), per l’artista toscana è rappresentabile piuttosto dai sassi fluviali o marini, dai tronchi accatastati che mostrano nei cerchi la loro età, dai paesaggi insabbiati (Versanden) di arenaria e di altri pigmenti ricavati sia nelle apposite cave che direttamente dal terreno e, infine dal corpo umano sofferente e trionfante ad un tempo. E’ così che per Martina Buracchi , il corpo della natura, prima di essere biologismo o meccanicismo, è Psychè ovvero soffio, respiro, alito e animazione, ritmo cosmico.
Legno, sassi, paesaggi aspri, cieli, diventano grazie allo stile, metafora e, successivamente, come lo spettatore-fruitore vede, metamorfosi, in cui la natura, distrattamente percepita dai più, si scambia con quella dipinta sulle tele, in cui il nuovo mondo prefigurato entra facilmente e indelebilmente – perché di vera opera d’arte si tratta – a far parte, come si vedrà, non solo del patrimonio visivo dello spettatore, ma di quello più nascosto della sua anima.
Nelle pietraie, nelle cataste di tronchi, nei paesaggi aspri, ondulati, tali da unire la dimensione ctonia a quella astrale, per le linee spezzate, ascendenti, multicrome, sia pure con l’arenaria dominante, è come se la forma del visibile avesse un’orlatura dipanantesi in linee di contatto sulle quali il colore si addensa e preme sul mistero latente dello spazio deserto al cui contatto l’animo può sussultare ma anche dimenticarsi.
Lungi dal voler esporre una teoria della percezione e della fruizione dell’arte, ciò che qui preme dire, è che l’energia che sostiene la Buracchi, non può non comunicarsi, in quanto le scelte di segno e cromatiche, son parte collettiva di un mondo dimenticato o, semplicemente, mai attivato.
Nella fase della sua maturità tecnica e poetica, Martina Buracchi, ha trovato nell’arenaria e nelle sfumature affini, una tonalità cromatica, che, simile ad una sorta di basso continuo delle composizioni musicali, accompagna e caratterizza una natura né caotica e né ferina (come quella delle opere etniche del periodo sudamericano dell’Artista), né tanto meno banalmente antropizzata o, peggio, ridotta a riserva di avventura e affermazione soggettiva. Nei suoi paesaggi si dipana attraverso le linee e i rilievi carichi di colori anche intensi, solennità e semplicità che non so se non riportare a quel “sentire cosmico” che F. Nietzsche invocava di contro allo smisurato, al quantitativo, perciò, “Si deve essere ancora vicini ai fiori, alle erbe e alle farfalle come i bambini che non sono molto più alti di loro…” (Umano troppo umano II). Grazie ad una spinta analoga la pittura dell’Artista toscana esce dalle rappresentazioni consuete per ritornare ad una consapevolezza diversa della natura, recuperandone la valenza aristotelica di contenitore della prote yle, (Materia prima) sotto forma grafica e pittorica, assegnando quel principio astratto a delle forme semplici e riconoscibili che lo rendono percepibile. Paesaggi, sassi, tronchi, figure umane possono, come nel tardo Rinascimento, essere accostati ai principi di materia signata e signatura rerum, in quanto essi appaiono come trasfigurati nella pittura della Buracchi quali effetti di una potenza celeste trasferita nelle singole cose terrestri, oppure come disse H. Bergson, le cose materiali sarebbero la lingua con la quale dio parla. (La pensée et le mouvant, Paris, 1938)
Il corpo della natura che la pittura della Buracchi ci manifesta, non è semplicemente una porzione di paesaggio, la trasparenza di un’acqua o altra immagine visibile e, neppure il particolare presentarsi di un materiale trasposto in opera, per la sua valenza eversiva, com’è accaduto nell’Astrattismo e nell’Informale. La pittrice toscana dà semplicemente una forma pittorica e poetica alla Natura, mantenendo il suo e nostro bisogno di totalità come qualcosa di limitato all’orizzonte visivo – in cui ciascuno ha il suo – ma il risultato finale diventa un irripetibile paesaggio dell’anima.
Marco Montori – laureato in Filosofia e in Scienze Politiche, docente di Storia e Filosofia nei Licei e nelle Università Popolari, è stato professore a contratto presso la cattedra di Estetica dell’Università di Perugia.
La sua attività si svolge fra ricerca filosofica a alta divulgazione nelle più svariate modalità: dall’organizzazione e partecipazione a convegni, a conferenze, a presentazioni di opere letterarie e artistiche. Ha infatti tenuto cicli di conferenze presso l’Istituto Italiano di cultura di Buenos Aires, nelle Università di Mòron (Argentina) e di Salamanca (Spagna). E’ stato a lungo presidente dell’Associazione filosofica T.Moretti-Costanzi, collaboratore del centro studi della Fondazione Federico II Hohenstaufen di Jesi, dell’Accademia degli Oscuri e di altre Istituzioni. Critico e saggista, i suoi contributi sono sparsi in diverse riviste: Bailamme, La Sfinge, IL Cannocchiale, la Rivista di Estetica.
In tempi recenti, dopo un soggiorno di studio presso il Warburg Institute di Londra, ha pubblicato in inglese un saggio sull’umanista E. Silvio Piccolomini. Vive e lavora fra Bologna e Montepulciano, in cui si è faticosamente ritagliato uno spazio adeguato d’intensa meditazione
Notes on Martina Buracchi's work.
Physis
kryptesthai philei
(Eraclito, fr. 123 D.K.)*
Beauty is
Truth, Truth beauty – that is all
Ye know on
earth, and all ye need to know.
(J. Keats, Ode on a Grecian Urn)
Nature holds the beautiful,
for the artist who has the insight to extract it .
(Albrecht Durer)
*Nature loves to hide.
The natural environment and landscape have been deeply wounded since they both were objectified above all objects. In fact in today’s world the mainstream experience of landscape is often that of a mere simulacrum of it which may be encountered. Artificial memories or advertising simulations of an idealized scenery.
Materialistic and economic consumption result in a progressive depletion of nature’s image, and this happens for varied and crucial causes.
Firstly the complete loss of marvel because of its symbolic weakening and the consequent predominance of the unoriginal and the obvious, a progressive inability to see recognize the ultimate culprit in the enormous amount of images that in modern-age society replace nature, which has itself long been confined to lifeless materialism and hence become entirely vulnerable to manipulation.
It would therefore appear somewhat of a challenge referring to a landscape as beautiful when it’s scarred or mostly neglected, neither could mountains be called sublime when these are encapsulated in a network of aerial lifts cables, nor could shores that are brimming with human masses…
These is the unsettling cultural environment where Martina Buracchi’s painting career first started out, initially with the her pictorial training at Florence’s Fine Arts Academy, then through constant dedication to research and experimentation; it is impressive as much as it is uncommon seeing how painstakingly the artist worked on her skills, which is clearly testified by the vast sets of anatomical drawings, portraits, inanimate objects such as rugged boots, barely sketched landscapes. The anatomical drawings and most all of these works reveal an introspective quest; with the academic-style nude figures, the portraits and the formidable self-portrait series the artist effectively strives towards framing the emotional determination of an instant in time. Both the female and male human figure display a powerful, neatly-drawn and at times violent style where the outlines dramatically enclose their body’s physical space as the center stage of the most vital feelings.
The experienced observer will easily see Buracchi’s research will successfully capture the complexity of “motus animae”, the motion of the soul, inside the physical body that conveys such motion.
Not only did Tuscany’s Buracchi accomplish a strong command of traditional pictorial techniques, but she equally dexterously experimented with the newer ones, advancing her visual poetry to a degree where, since 2007/2008 she could reach beyond the visible and its mere depiction to unveil nature’s hidden structures( cf. Heraclitus’ quote above) much like quantum physics describes matter’s atoms and particles. How could she have been going this far? Sheer physical toil, the relentless endeavors couldn’t alone suffice without her sensitivity and natural inclination to even unintentionally letting herself be enveloped in the archetypical body of nature, which engenders all of perceptible cosmic life, in all colors and forms.
All of these themes I could prominently notice during frequent exchanges with the artist;
her conscious determination to joyously subject herself to nature’s profound mastership which feeds her productive imagery.
I feel at this point obligated to underline how modern-age subjectivism misinterprets creativity as the pure genius work of a sovereign individual,
whilst Buracchi’s artistic project draws its value and fascination neither from the habitual nor from an inherited standard . To quote F.Holderlin, “nature older than the ages above the gods of the west and the east” awakens in the Sinalunga, Tuscany-born artist’s more latter work in the form of burning extasy where the visible, the naturalistic aspect of superficial observation is removed and the Hidden reveals itself in the light.
In Buracchi’s vision, nature and its body, which poet G. Leopardi’s saw as embodied by a raven haired woman with a terrifying stare in the eyes(cf. moral essays’ dialogue between Nature and an icelander.), is rather epitomized by the river stones or marine rock forms, piles of driftwood logs exposing their age rings, sand-layered landscapes on sandstone either mined from quarries or sourced directly from the ground, and lastly the human body which is agonizing and triumphant at once. And this is how Martina Buracchi’s body of nature, before its biological or mechanical essence, is Psyche’, which is blow, breathing, breath of life, cosmic rhythm.
The driftwood, stones, harsh wilderness, skies become metaphor through style and then, as the spectator/audience can see, metamorphosis where nature, inattentively perceived by most, becomes interchangeable with its painted counterpart on canvas where the represented new world is easily and -since this is genuine art expression-indelibly incorporated not merely into the viewer’s visual imagery but, as we will see, also into the more receded space of the soul.
In the rocky shingles,the harsh wilderness, the wavelike forms, such as that they connect the Cthonian underground to the celestial world, through ascending multi-chrome broken lines, even if in a predominantly sandstone environment, it’s almost like the visible forms had a rim part unraveling along contact lines where color thickens and thrusts onto the latent mystery of the desert space where contact may either send the soul into unrest or oblivion.
Far from being wanting to elaborate on the theory of perception and viewing experience in the arts, what primarily interests me here is that Buracchi’s driving energy just cannot go unexpressed, since the register and chromatic choices are collective part of a forsaken world which may simply never have been activated. At a more advanced stage of her lyrical and technical evolution, Martina Buracchi has found such a chromatic tone in sandstone and similar pigments, which, not unlike the pulsating bass lines in musical compositions, does accompany and characterize a natural world that’s neither chaotic or feral(such as was the one seen in the artist’s south-American period ethnic works), nor obviously anthropized or even worse vilified to a private reservation for self-centered adventures and subjective affirmation. Through lines and relief layers loaded with often intense color, her landscapes convey solemnity and simplicity which I may well relate to that cosmic vibration which F.Nietsche invoked as apposed to the limitless, the quantitative, therefore”one must try and remain within close reach of the flowers, the grass, the butterflies so as children are because they aren’t much taller than that…”
Thanks to a similar driving force the Tuscan woman artist leaves the beaten track of habitual representation and reverts to a different kind of awareness of the natural world, in so doing re-establishing it as Aristotle’s container for ” prote yle”(the Prima materia) in a new graphic/pictorial form, endowing with this abstract principle recognizable basic forms that make it perceptible.
Landscapes, stones, tree logs, human figures all may be likened to Renaissance-age principles of “materia signata”and “signatura rerum” since in Buracchi’s painting work they appear as transcendent effects of a celestial power that’s transferred to each single earthly element, or so as H. Bergson said, in all physical things is the language spoken by God. (La pensee et Le mouvant, Paris 1938)
The body of nature on display in Buracchi’s work isn’t merely a portion of landscape, the transparency of sea water or any other visible element, nor the particular manifestation of a specific medium transposed into work of art due to its revolutionary power, such as it was the case with Abstract and informal painting movements. The Tuscan painter simply lends nature a pictorial and lyrical form, retaining her own and our need for a holistic transcendence that falls within the boundaries of the visual field-everyone has their own-and yet the ultimate result is an unrepeatable inner landscape.
Marco Montori – Philosophy and political sciences Ph.D undergraduate and graduate history and philosophy professor at secondary schools and state university institutions, formerly contracted lecturer at Perugia university’s aesthetics department.
His professional activity is equally divided between philosophical research and high-profile educational projects ranging across an extremely broad spectrum; from specialistic conventions /lectures and meetings , to literary and fine arts presentation events organization.
He has indeed been holding a series o lecture at Buenos Aires’s Italian culture institute, at Argentina’s Moron University and Salamanca, Spain. He has also served for a long time as the Moretti-Costanzi Philosophy foundation’s chairman.